Il “nuovo” preposto tra formazione e addestramento.
La figura del preposto è senza alcun dubbio una delle più importanti del sistema prevenzionistico per gli infortuni sul lavoro ed è sostanzialmente una figura obbligatoria, almeno in tutti quei casi – che sono ovviamente la maggioranza assoluta, specie in certi comparti produttivi – in cui il datore di lavoro non è in grado di vigilare, personalmente ed in maniera continuativa, sulle attività dei propri lavoratori.
Con la “riforma” introdotta dal D.L. n.146 del 2021 recante “Misure urgenti in materia economica e fiscale, a tutela del lavoro e per esigenze indifferibili”, il ruolo del preposto si è notevolmente ampliato, estendendo di conseguenza anche gli obblighi di garanzia e cioè gli obblighi di mettere in atto azioni, non necessariamente imposte in maniera puntuale dall’ordinamento, idonee all’impedimento dell’evento lesivo e, dunque finalizzate alla completa tutela del lavoratore.
Il termine “preposto” deriva dal latino præpositus, participio passato del verbo præ-ponere, col significato di “porre avanti” o, ancor meglio, di “porre sopra”. E così, il Testo unico per la Sicurezza sul lavoro ci dice, attraverso il combinato tra l’art.2 e l’art. 19, che il preposto ha l’obbligo di “sovraintendere” allo svolgimento dell’attività lavorativa, includendo però anche il “potere di impartire ordini e istruzioni” per regolare l’esecuzione del lavoro altrui nonché il “potere di controllo” affinché tale lavoro venga svolto in sicurezza, utilizzando tutti i necessari e idonei mezzi e dispositivi forniti dal datore di lavoro. A questi poteri vengono collegati dei “doveri” di garanzia altrettanto importanti: il dovere di vigilare i lavoratori, affinché osservino le misure di sicurezza e usino i dispositivi di protezione individuale (DPI) e affinché si comportino in modo da non creare pericoli per sé e per gli altri, e il dovere di “interrompere l’attività” in caso di mancata attuazione delle disposizioni impartite o in caso di rilevazione di deficienze dei mezzi e delle attrezzature di lavoro o per ogni ulteriore condizione di pericolo rilevata.
A seconda del settore produttivo, il preposto è il caporeparto, il caposquadra, il capocantiere, etc. e ciò indipendentemente dall’esistenza di un atto di nomina formale, ai sensi e per gli effetti dell’art. 299 del TU con il quale le principali posizioni di garanzia vengono individuate anche “per comportamenti concludenti”.
Da quanto sin qui esposto è facile intuire la grande centralità che la norma ha affidato al ruolo di preposto e l’importanza che, di conseguenza, assume la sua “formazione” specifica sulla quale infatti il Legislatore, ancora una volta attraverso il D.L. n.146 del 2021, ha proposto una sensibile revisione sia in termini di modalità di somministrazione che sotto l’aspetto dei contenuti minimi, sottoponendo il tutto al parere della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato, le Regioni e le Province autonome di Trento e Bolzano (in breve, “Conferenza Stato-Regioni”).
Nel nuovo “progetto” formativo, oltre all’acquisizione di una maggiore sensibilità verso i concetti di rischio, una grande rilevanza viene affidata all’”addestramento”, inteso quale fondamentale momento in cui il preposto acquisisce, in maniera diretta e pratica, quelle capacità di corretto e repentino intervento che gli vengono richieste dalla norma.
Formazione e addestramento, perciò, quali presupposti essenziali allo svolgimento del ruolo e dell’attività da preposto, a qualunque comparto esso appartenga.
Se dunque il D.L. n.146 del 2021 ha proposto un’importante spinta in questa direzione, ci sono settori o attività produttive per le quali una sostanziosa formazione ed il “concreto” addestramento hanno sempre avuto una centralità assoluta, anche se spesso non specificatamente regolamentata. Si pensi agli interventi in “ambienti confinati” o, per citare attività con le quali si ha maggior dimestichezza e quotidianità, alle lavorazioni in quota “mediante fune”.
In entrambe i casi, la formazione (per acquisire le nozioni utili alla corretta percezione del rischio) e specialmente l’addestramento (per imparare materialmente “come muoversi” in ogni situazione) sono presupposti imprescindibili del bagaglio tecnico-professionale, sia del “semplice” lavoratore/operatore, che ovviamente del preposto la cui capacità di “sovrintendere” diventa la prima “diga” all’evento lesivo e la cui rapidità ed efficacia nell’“agire” è la chiave principale per la mitigazione del potenziale danno, basti pensare alla rapidità con cui una squadra d’emergenza deve agire per soccorrere un lavoratore in “sospensione inerte” che, a seguito di perdita di conoscenza, può indurre la cosiddetta “sindrome da sospensione” con un rapido declino delle funzioni vitali.
A giudizio di chi scrive, anche in attesa di quelle che saranno le indicazioni della Conferenza Stato-Regioni, per talune attività come quelle citate, non è possibile pensare ad un addestramento “abilitante”, effettuato attraverso un numero “limitato” di ore e che viene magari ripetuto, quale “aggiornamento”, dopo 2 o 3 anni. Numerosi studi di psicologia del lavoro, infatti, ci dicono che “il lavoratore”, in tempi anche piuttosto brevi, tende ad assumere comportamenti operativi che egli ritiene “comodi”, “rapidi” o “efficaci” ma che quasi mai rappresentano la migliore condotta in termini di rischio.
Occorrerebbe perciò pensare ad una sorta di formazione e/o addestramento “continuo” con il quale il lavoratore e il preposto sono periodicamente monitorati anche rispetto alle esperienze man mano maturate e alla propria percezione dei “non eventi”, così da acquisire anche un proprio giudizio critico e sviluppare la capacità di auto-feedback.
Per dovere di cronaca, in ogni settore produttivo esistono molte aziende che si sono già attrezzate e strutturate con proprie risorse formative e centri per l’addestramento, proponendo, magari a rotazione ma con cadenze addirittura mensili, attività di aggiornamento, confronto e affinamento delle tecniche operative.
Qui, però, emerge un’altra questione, già più volte sollevata da chi vi scrive e che è quella del Sistema di Qualificazione delle Imprese, previsto dall’art. 27 del Testo Unico e mai concretizzatosi, secondo il quale – in maniera sintetica – le imprese vengono qualificate e premiate in funzione della propria virtuosità e dunque “sulla base della specifica esperienza, competenza e conoscenza, acquisite anche attraverso percorsi formativi mirati, (..) nonché sull’applicazione di determinati standard contrattuali e organizzativi nell’impiego della manodopera”.
L’assenza di un Sistema come questo inevitabilmente oggi crea fenomeni di “dumping sociale” o di concorrenza sleale che certamente non favoriscono l’accrescimento formativo delle imprese e dei lavoratori.
Al contrario, l’istituzione di una “patente” di virtuosità spingerebbe le aziende a maggiori e più mirati investimenti formativi sul “materiale umano” quale presupposto di base per la leale concorrenza sul mercato.
In attesa che su questo fronte si muova qualcosa, il suggerimento di chi scrive a tecnici e committenti è quello di verificare sempre l’idoneità delle imprese a cui ci si affida, anche sotto gli aspetti dell’esperienza, dell’affidabilità e della “qualità” degli operatori.
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